Porta Elisa News

Vincere non è l'unica cosa che conta

martedì, 2 luglio 2024, 16:13

di alessandro lazzarini

L'imbarazzante nazionale appena eliminata da Euro 2024 merita una riflessione sullo stato del movimento calcistico italiano. Quella degli Europei in Germania non è certo la prima disfatta al cospetto di squadre meno blasonate collezionata dagli Azzurri, ma francamente alla luce di tutte le partite giocate non ci sembra di ricordare una nazionale tanto priva di talento, fantasia, ardore agonistico, personalità dei singoli, tenuta fisica e orgoglio come questa. Soprattutto, alla luce dei fatti, risulta molto complesso considerare la sconfitta subita contro la Svizzera al pari di quelle storiche contro squadre inferiori, come la Corea ad esempio: gli elvetici sono parsi superiori all'Italia non solo nelle motivazioni e nell'orgoglio, elementi che talvolta possono fare la differenza nel calcio anche quando c'è disparità di valori, ma anche tatticamente e nella qualità dei singoli giocatori. Ma come è possibile che movimenti calcistici di paesi piccolissimi o quasi irrilevanti, riescano a competere sotto ogni punto di vista con quello di un paese come il nostro, dove il calcio sembra essere una religione?

Dopo ogni sconfitta se lo chiedono in molti, salvo poi dimenticarsi della questione quando il circo riapre i battenti, e non è certo qua nel nostro piccolo che si possono trovare risposte. Certo però ci sentiamo legittimati a fornire qualche riflessione, anche perché sia come appassionati, sia come testata giornalistica che si occupa delle vicende di una squadra relegata in Serie C, la decadenza del calcio italiano ci tocca da vicino, visto che se il vertice calcistico della nazione è a tal punto di degrado, figuriamoci a che spettacolo si trova esposto un tifoso che segue le categorie inferiori.

Detto che le caratteristiche del calcio italiano che proprio non ci piacciono sono moltissime e non possiamo enumerarle tutte senza incorrere nella stesura di un trattato, eviteremo di soffermarci ad esempio su una della più evidenti, come il tenore medio raggiunto dal contegno nelle relazioni pubbliche degli allenatori di ogni livello e che è ben sintetizzato nella mancanza di umiltà, nell'arroganza e nel sottile (per quelli del suo livello intellettuale) modo in cui il tecnico della nazionale ha scaricato le sue responsabilità direttamente sui ragazzi mandati in campo.

A stupire, a nostro avviso, è in primis la mancanza di estro di un movimento calcistico che ancora pochi anni fa, quando schierava la nazionale, doveva scegliere chi far giocare fra Del Piero, Totti e Baggio. Eppure, tanto per esporre un dato che forse non tutti conoscono, in Italia ci sono 8mila scuole medie e circa altrettante scuole calcio. Si, avete capito bene, nel 2019 (non si trovano censimenti successivi) la penisola contava ben 7.200 scuole calcio, il che lascerebbe intendere che non è certo nella mancanza di praticanti che va ricercata la discesa del livello medio. Ma cosa è una scuola calcio? Sembra una domanda banale, forse però la risposta non è così scontata, anche perché fino a pochi anni fa questo livello del gioco del calcio di fatto non esisteva. Un tempo, in pratica, si giocava per strada o nei campetti con gli amici, poi si entrava nei settori giovanili di qualche società. Mediamente ciò accadeva a 10-11 anni, qualche volte poco prima, a 9 anni, minimo di età per i pulcini. Lì si giocava a pallone, ovvero dopo la pratica con gli amici si imparava il contesto di squadra e si giocavano le partite. La scuola calcio è per lo più qualcosa che sostituisce il gioco con gli amici e precede l'attività agonistica vera e propria; molte scuole accettano bambini a partire dai 5 anni e si prefiggono, in cambio di rette annuali che vanno dai 500 ai 1500 annui circa, di insegnare le basi tecniche del gioco. L'evasione e il momento rituale di ritrovo con gli amici, con i calci dati a palloni improvvisati su qualsiasi tipo di terreno e con ingegnose soluzioni per simulare porte e terreno di gioco (sfido a non affinare la tecnica), è stata sostanzialmente rimpiazzata da strutture attrezzate, con kit di gara e qualsiasi altro agio e comodità; soprattutto, è stata rimpiazzata da un contesto percepito come 'scolastico', didattico diciamo, traslando il momento socializzante in momento dell'obbligo, con qualche dubbio sulla percezione del bambino di questo contesto come ‘divertimento’.

Non ci facciamo confondere dall'inflessione leggermente polemica che potrebbe far trasparire una certa diffidenza verso le scuole calcio: stando al buon senso si potrebbe pensare che la didattica organizzata e seguita da istruttori sia superiore a quella fai da te fornita dal Super-tele che 'avventa' sull'asfalto. In sostanza non siamo noi che siamo critici nei confronti delle scuole calcio, sono piuttosto i fatti che ci dicono che da quando a giocare a pallone si impara con degli istruttori il calcio italiano non ha più prodotto un fantasista, ad esempio. Coincidenze? Può essere.

Intendiamoci, non è che le scuole calcio abbiano ucciso il gioco di strada, quello è morto per conto suo, con l'era della socializzazione telematica e, se non ci fossero tali scuole e i genitori che più o meno spingono i ragazzi ad andarci sperando di ritrovarsi in casa un milionario ricoperto di tatuaggi dalla testa ai piedi, forse a pallone ormai si giocherebbe solo sul cellulare.

Cosa accade di preciso in queste scuole calcio? Ah, saperlo. Una dottrina nazionale uniforme e linee di indirizzo comuni, più o meno non esistono e per lo più sono lasciate alle teorie dei singoli istruttori, alcuni bravi, alcuni forse meno. Molte sono gestite da ex calciatori; in Italia, infatti, esiste ancora qualche calciatore che quando smette non viene digerito come opinionista da qualche tv, né magari assoldato come allenatore senza esperienza al posto di qualcuno che ha fatto la gavetta e ottenuto risultati, così a molti di loro non resta che tornare al paesello e aprire la fucina di campioni. Perché diciamo questo? Beh, semplicemente perché andando a vedere altri paesi con lo stesso contesto sociale, ad esempio la Spagna che attualmente anche schierasse le riserve delle riserve delle riserve delle riserve delle riserve delle riserve potrebbe probabilmente fornire un undici migliore di quello Azzurro, scopriamo che, se anche non esiste qualcosa che possiamo propriamente considerare una dottrina didattica formalizzata, le scuole calcio sono organizzate in modo da simulare ciò che un tempo era l'improvvisazione divertente del gioco di strada. Sarà mica che qua, invece, fin da bambini si impara la disciplina tattica, l'importanza di non rischiare le giocate per non perdere il pallone e si presta fondamentale attenzione al risultato?

Certo, ci sarebbero molti altri fattori da prendere in considerazione, primo fra tutti il grande ricorso a stranieri già nelle squadre juniores e primavera dei club professionistici; questo dato è incontestabile ed è certamente da riferirsi alla trasformazione dei settori giovanili in senso mercantile: ma perché mai andare a prendere un ragazzo in Costa d’Avorio, o in Slovacchia o in Serbia, se ce ne fossero di pari livello sotto casa? Insomma, la questione della formazione ci sembra precedente a quella dell’abbondanza di stranieri.

Quindi, ci chiediamo, non è che organizzando dall'alto la didattica del pallone si è persa la spontaneità del soggetto, riuscendo finalmente a rimpiazzarla con l'ideologia del nostro calcio, racchiusa in una frase considerata geniale e che invece, a nostro avviso, da decenni appesta la nostra cultura calcistica, ovvero "Vincere è l'unica cosa che conta"?




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