Detto tra noi

"Del no, per li denar, vi si fa ita"

lunedì, 1 maggio 2023, 15:47

di fabrizio vincenti

"Del no, per li denar, vi si fa ita", scrive, parlando dei lucchesi, il Divino Poeta nel XXI° Canto dell'Inferno. Nella quinta bolgia dantesca, Dante pone un po' tutti i lucchesi, coperti di pece bollente, perché talmente attaccati al denaro da arricchirsene anche utilizzando le loro cariche pubbliche per garantire favori, privilegi, permessi. Barattieri, insomma. Vecchia storia, quella dei lucchesi avari, cinici, attaccati al denaro prima di ogni cosa, al punto da – per usare le parole di Dante – trasformare un no in un sì, purché remunerato adeguatamente. Mercanti, nella peggiore delle accezioni. Dante ci è venuto alla mente assistendo alla conferenza stampa dei vertici del Basket Le Mura, una sorta di anteprima dell'ennesimo funerale sportivo cittadino (ma fino all'ultimo spereremo in una via di uscita) che, temiamo, passerà ancora una volta nell'indifferenza di questa città tanto bella quanto malamente abitata, soprattutto se si guarda alla sua classe dirigente, erede delle famiglie che per secoli, hanno dato vita a una oligarchia nient'altro che basata sul censo.

I secoli sono passati, ma una sorta di oligarchia del censo regna ancora florida in città. Ha solo cambiato pelle, con i mercanti, usurai, produttori e commercianti di seta che sono divenuti redditieri e poi, ai giorni nostri, imprenditori soprattutto di un settore, quello della carta. Qualcuno ironizza appellandolo il settore della carta da culo, ma, anche se siamo in un mondo sempre più di merda e dunque destinato a un maggior consumo, ci pare ingeneroso. Parliamo di grandi imprenditori, va detto e riconosciuto. I conti delle loro aziende tornano sempre, e non è un merito da poco, salvo quando, di fronte alle crescenti incertezze della globalizzazione preferiscono farsi da parte, cedere, incassare e reinvestire. Ovviamente assicurando che non ci saranno ripercussioni sull'occupazione, almeno nell'immediato. Andateglielo a dire a chi lavorava in una della tante aziende che in poco tempo hanno chiuso i battenti, visto ridurre il personale o spostato la produzione. La trafila di questi imprenditori ricorda quella che fecero secoli prima altri, che dal tessile investirono nell'agricoltura, dando tra l'altro vita a quella bellissima serie di ville che sorgono poco fuori Lucca. I nomi, ovviamente, non sono i soliti: la Storia macina tutti e ripropone via via altre comparse. La trama, a prima vista, non cambia invece molto.

Quello che invece pare una evidente rottura con il passato è il progressivo slabbramento del tessuto connettivo sociale, del senso comunità che altrove, invece, in qualche modo, persiste: Lucca, scusateci la franchezza, è sempre più un grande lunapark, un baraccone per turisti spensierati che girano a tutta velocità con un risciò sulle Mura, che vanno in overdose di foto per il primo cantante stonato e alticcio che si esibisce sulla pubblica piazza e che si accomodano davanti a una tavola apparecchiata dilettandosi a far altri scatti a quelle che pensano sia prelibatezze. I lucchesi, mano nella mano con mogli e fidanzate nell'atto sacro di andare a far shopping o la giratina sulle Mura o al mare, ci pare siano entrati anch'essi in questa dimensione: dopo una settimana di duro lavoro è il massimo che si possano permettere. Lucca si sta ripiegando su se stessa, più di quanto succeda altrove. 

Della Lucca profonda, della sua identità, nonostante alcuni tentativi benemeriti – come quello compiuto dal Comune che per una settimana ha messo a disposizione gratuita (per stavolta evitate l'ironia) i musei e i luoghi culturali cittadini – si stanno perdendo le tracce. Abbiamo un numero di anni sulle spalle per poterlo affermare pescando nel libro dei ricordi: il processo è in uno stato molto avanzato. Tiene duro l'enclave del volontariato, che ci guardiamo bene dal sottostimare, ma anche su quel mondo e sul mancato senso di comunità ci sarebbe altro da dire, visto che Lucca è sì la capitale del volontariato: come numero di associazioni. Da queste parti, infatti, ognuno si fa la sua, al massimo coinvolge parenti e amici e prova a bussare cassa. Si crea un mondo a sé. Quasi una sindrome del focolare domestico. E guai a parlare di fusioni, di unioni di forze. La stessa situazione si potrebbe ricordare per il mondo dello sport. Centomila, si fa per dire, associazioni, spesso in guerra una con le altre per ottenere briciole di sponsorizzazioni o nel sottrarsi i giovani atleti. Guai ovviamente a osare parlar di polisportiva: ci sarebbe il rischio di pensare in grande. Anni addietro iniziò a ragionarne un ex assessore allo sport: non riuscì a andare oltre la sua buona intenzione.

Per non parlare delle presenze agli eventi sportivi: roba da parrocchia, anzi peggio. Perché i 1100 spettatori medi della Lucchese, le poche centinaia del basket maschile e femminile, i numeri ancora inferiori di altre discipline, confermano che da queste parti manca cultura sportiva, manca il senso di comunità. Che poi qualcuno dica che è colpa dei risultati, è solo la conferma che da qui si bada solo al sodo: al limite a essere presenti quando le cose vanno bene. Non funziona ovunque così, sia chiaro. E per fortuna, aggiungiamo, pur sapendo che i risultati hanno la loro giusta importanza anche altrove. Ma poi, pensando alla parabola del Basket Le Mura, che ha incassato meno nell'anno dello scudetto rispetto all'anno prima, ci vengono persino dubbi su questo assioma: da queste parti, l'apatia forse ha superato persino il presenzialismo dei vincitori. O forse la vittoria c'era stata al Palatagliate, e dunque si poteva abbandonare il seggiolino. Ci rivediamo tra vent'anni.

C'è poi la questione del tessuto industriale, cui accennavamo prima: definirlo sordo alle esigenze dello sport è un eufemismo. Così come a quelle della cultura. Vi raccontiamo un aneddoto per spiegarci. Anni addietro, un assessore comunale alla cultura, ci portò un esempio illuminante: da parte di una primaria realtà industriale di livello internazionale era stata data la disponibile a far arrivare al Teatro del Giglio due spiccioli due dopo una lunga e faticosa trattativa. "Dissi di lasciar perdere, mi sembrava la carità", ci confidò. Non è un caso: è la regola, salvo, naturalmente, poche eccezioni. E tra queste, senza far torto a nessuno, citiamo la famiglia Pasquini e quanto ha fatto per anni per il basket maschile. Gli esempi sono pochi per quanto apprezzabili. 

O avete la fortuna di avere un figlio, massimo un nipote, del patron o di un membro del consiglio dell'azienda in una squadra o in una associazione, e allora qualche spicciolo arriva in nome dei vincoli parentali; oppure dovete mettervi l'anima in pace. I soldi, per carità, circolano, eccome se circolano, ma vanno in barche, investimenti immobiliari, coiffeur di grido in giro per l'Europa, feste di compleanno e altro. Per il resto, rimane una mancia e molto spesso nemmeno quella. Con la scusa più meschina che si potrebbe usare: "Se li do a loro, i soldi, poi me li chiedono altri". Come se, peraltro, tutti fossero uguali, e cercare di salvare realtà storiche come la Lucchese (dobbiamo ricordarvi quanto fatto da chi i soldi li ha a piene mani durante tutte le ricorrenti crisi societarie?) o una società di basket che ha vinto l'unico titolo italiano a squadre nella storia sportiva del territorio, possano essere paragonabili a una bocciofila di paese.

"Se vi raccontassi le volte che sono andato in Associazione Industriali in piazza Bernardini e in tante aziende – ha detto il presidente uscente del Basket Le Mura Rodolfo Cavallo – rivendicando l'importanza sociale e sportiva del progetto, eppure niente. Mi sono sentito rispondere: "Se gli diamo a voi, dobbiamo dare a altri". Ma che razza di discorso è? Niente nemmeno con una public company: 1500 euro per 100 studi commerciali, legali, notarili avrebbero voluto dire darci respiro dare risorse con un main sponsor, niente nemmeno da questa strada e 1500 euro sono una mancia, oltretutto detraibili". Ecco: il no, dei tempi di Dante, rimane un no, quando si deve metter mano al portafoglio per la comunità, per lo sport, per la cultura. 



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