Rubriche : romanzo rossonero

Pantere, mezzi uomini, ominicchi, ruffiani e quaquaraquà

martedì, 14 novembre 2017, 09:20

di alessandro lazzarini

Mancano 15 minuti alle 23 del 13 novembre 2017 quando la decadenza dell'Italia si trasforma in degradazione storica di ogni suo barlume di orgoglio: il calcio, lo sport del popolo che ne esprime usanze e costumi, finisce di essere prodotto d'eccellenza della tradizione del Belpaese, dismette il suo marchio Doc e sancisce la sua definitiva esportazione oltre confine: la nazionale di calcio italiana è fuori dal mondiale, non siamo più capaci nemmeno di essere maestri del pallone, ci restano solo muri e monumenti, rovine ben custodite di una cultura che fu e che non è più.

Sarebbe solo un gioco, se non fosse che, come si è detto già molte volte, il gioco del pallone ha questa peculiare ed unica caratteristica di non essere una prassi incastonata in un codice rigido, ma un miscuglio di abilità e ingegno in grado di esprimere il carattere del popolo o della città rappresentata dalla maglia, ed è per questo che per l'Italia perdere il mondiale significa molto più che uscire sconfitta da una semplice disputa sportiva.

Ma veniamo ai fatti e al nostro racconto. Lo spareggio ci pone di fronte la Svezia operaia che se si giocasse con le figurine avrebbe già perso. Invece come si è detto si gioca con il carattere e quando si parla di carattere la fotografia dell'Italia a Stoccolma è Chiellini che finge di aver preso un colpo in faccia e viene colto dalle telecamere a dare quello che i sedicenti critici chiamano sguardo malandrino, ma che invece è il gesto che non avremmo mai voluto vedere, la sceneggiata che ci fa vergognare perché rafforza una volta di più i luoghi comuni sugli italiani che ci vengono sempre sbattuti in faccia quando ci troviamo al cospetto degli integerrimi scandinavi: furbetti bugiardi che si arrabattano con espedienti, ingannano e truffano quando possono, mammoni che si mettono a piangere per averi favori.

Questi stereotipi sono introiettati anche dal popolo italiano, che li pone alla base del complesso d'inferiorità che ormai sentiamo verso quella cultura anglo-sassone che tendiamo a considerare modello e tentiamo in ogni ambito di imitare rifuggendo la nostra natura secolare, eliminando l'estro, la confusione e l'improvvisazione che sono la ragione per cui i nordici non perdono occasione per sbeffeggiarci: perché invidiano la genuinità del nostro contesto, imprigionati come sono nelle regole, nella burocrazia e nella rigidità dei loro costumi.

Eppure la nostra opinione pubblica e la nostra politica perseguono quotidianamente e con implacabile accanimento queste realtà acriticamente considerate d'avanguardia, ma che a ben vedere hanno ormai da anni sperperato il loro credito di prestigio: i grandi guru senza scrupoli protagonisti delle vergogne della finanza mondiale vengono da queste tradizioni, mentre nello specifico il contributo più rimarchevole degli scandinavi alla modernità è la società sessuofoba dei rapporti fra persone stabiliti in tribunale, di cui oggi vediamo gli esiti più plateali sottoforma di gogne pubbliche di uomini condannati dalla pubblica piazza sulla base di racconti che non vengono sottoposti ad alcuna verifica. E' il nuovo puritanesimo, che ha preso il via nel 2010 quando Wikileaks rese pubblici migliaia di documenti diplomatici che mostrarono al mondo le miserie diplomatiche dei potenti, il suo leader Assange andava punito e la soluzione si andò a cercare nella distopica società svedese: mandato di cattura per stupro e molestie sulla base della denuncia orale di una militante femminista.

Questa è la società che ammiriamo al punto di voler rinnegare le nostre abitudini e inclinazioni e il calcio è sempre specchio della società, così dopo le rivoluzioni di Sacchi e Orrico sono arrivati gli epigoni che, non capendo niente del gioco dei maestri che incastonavano la fantasia in un contesto organizzato, si sono messi al lavoro per trasformare in mediocre mediano qualsiasi tipo di ragazzino: le caratteristiche storiche dell'Italia erano quelle di non arrendersi mai e di avere uomini di genio, i Rivera, Conti, Baggio e così via, non le recite simulate di Chiellini e la piagnucolosa arroganza di Bonucci fatta di gesti plateali, né l'assenza di qualsiasi forma di orgoglio che fa andare l'allenatore Ventura a lamentarsi dell'arbitraggio dopo una partita maschia in cui la Svezia, fregandosene dei luoghi comuni stereotipi, ha cercato di vivere di espedienti.

D'altronde cosa mai potevano fare gli scandinavi? Hanno giocatori di seconda fascia, sono inferiori, allora sul campo hanno messo grinta e coraggio, mentre noi coi nostri complessi abbiamo omesso ciò che i nostri avversari temono e ci invidiano: l'estro, la creatività e la libertà imprevedibile di non essere imprigionati negli schemi. Gli stereotipi che ci vengono affibbiati dai nordici sono così tanti e umilianti che quando sbarcano a Milano vengono accolti dai fischi al loro inno, piccola reazione d'orgoglio del pubblico. Se l'Italia fosse una 'categoria' cui chiedere il voto verrebbe difesa a spada tratta, si cercherebbe di capire il perché di questo comportamento irrispettoso, che è una reazione, invece non si esce dal formalismo e i profeti del politicamente corretto non hanno alcuno slancio verso un seppur accennato tentativo di comprensione, i fischi vengono solo stigmatizzati, vergogna, ancora una volta abbiamo mostrato noi stessi, gli 'sbagliati', ai maestri di civiltà, quelli che vendevano le magliette per prendere in giro l'italianità dopo il 'biscotto' sottobanco con gli odiati danesi pur di eliminarci dagli europei, ma i furbetti senza dignità siamo ancora noi.

Bisogna vincere, ma ancora una volta i possibili uomini di genio, ammesso che lo siano davvero, vengono esclusi, la Svezia ne ha uno, Forsberg, e lo mette in campo, si chiude, combatte, non si arrende mai, insomma quelle che dovrebbero essere le nostre caratteristiche, è il mondo alla rovescia: nel tentativo di rinnegarci per assomigliare agli altri noi ci siamo snaturati, loro senza vergogna si sono presi le nostre qualità e ci hanno sbattuto fuori.

Dopo le disfatte arrivano i dibattiti, in tv alla radio e ogni dove iniziano i processi alla ricerca di un colpevole, che a volte è l'allenatore, a volte i dirigenti, a volte i giocatori, però come al solito sul banco degli imputati non ci finisce il più in malafede dei protagonisti: l'opinione pubblica e il giornalismo. Sono loro dopotutto che fanno i processi, come potrebbero mai giudicarsi? Eppure alla base della mutazione genetica della società e quindi del nostro calcio ci sono loro, politici e leaders d'opinione che ogni giorno non ci dicono "miglioratevi", bensì ci dicono "siete sbagliati, cambiate e somigliate agli altri". E' il conformismo acritico che segue l'abbandono di ogni valore riconosciuto alla cultura, l'umanesimo spregiato per la produzione di uomini la cui unica destinazione è di essere ingranaggio, quindi non devono farsi domande. Il giornalismo sportivo è l'apoteosi di questo sgomento di decadenza, perché è la narrazione d'eccellenza del sentimento popolare; la Gazzetta dello Sport, il giornale più venduto in Italia, lo specchio dove leggere ciò che siamo diventati: sensazionalismo fine a se stesso, giochi di parole obbligatori, più brevi possibili, ciò che ci vuole è scandalismo e frasi fatte, il lettore non deve elaborare, non deve pensare, deve solo digerire all'istante uno slogan e sovrapporlo ai suoi pregiudizi, vomitandolo sottoforma di punto di vista proprio. Il tentativo quotidiano è quello di trasformare l'ordinario in straordinario, il mediocre in eccellenza, il compitino in impresa. Ecco allora che un nome nuovo o col procuratore giusto che stoppa un pallone senza buttarlo a 10 metri diventa il nuovo Maradona del futuro, tutto viene ingigantito e fatto iperbole, si perde il senso e si crea una realtà altra nella convinzione che per suscitare l'interesse, cioè avere lettori, sia obbligatorio propinare il mitologico che non c'è.

Così vanno complessivamente i media moderni, quella 'comunicazione' che deve per forza essere veloce e incisiva, con la pretesa che la parola performativa formi le coscienze e plasmi l'uomo macchina ormai considerato privo di libero arbitrio, 140 caratteri di nulla spacciato per tutto e guai a voler dire qualcosa, perché per dirlo c'è da scrivere troppo e l'articolo diventa troppo lungo per essere letto da chi è solo alla ricerca della conferme di idee che in realtà sono pregiudizi che non si sogna di mettere in discussione.

Trenta ore prima della disfatta allo stadio Porta Elisa la Lucchese-Svezia aveva ospitato la corazzata Alessandria-Italia in condizioni disperate: un solo attaccante di ruolo disponibile, il capitano Nolé abbandonato dai muscoli, la difesa rivoluzionata. Insomma, i presupposti giusti per la rinascita degli ospiti, a meno che ancora una volta il calcio ci dimostri quanti elementi non riconducibili alle abilità individuali concorrano al suo svolgimento: si parla di personalità, coraggio, gioco di squadra e anche fortuna, fattori che spesso contano più della tecnica e che rendono questo gioco imprevedibile e ideale per raccontare storie incredibili ed imprese sportive impareggiabili.

Al fischio d'inizio la Lucchese si presenta in campo col suo numero 8 fra i titolari, il 37enne Mingazzini cui fnora erano stati ingenerosamente riservati solo pochi scampoli di partita, e il tasso di personalità subito decolla sull'onda del suo spirito: con Fanucchi ed Arrigoni prende per mano la squadra e i locali fin da subito impongono il loro gioco agli ospiti, a dire il vero sul principio un po' troppo svogliati e dediti al minimo sindacale. Certo, quando l'Alessandria manovra si vede subito che stiamo parlando di altro tocco, altre potenzialità e in definitiva altra categoria, ma le pantere sono più organizzate, giocano bene e non si tirano mai indietro; sulla destra Merlonghi e Tavanti sono una lama che affetta la torta grigia, dall'altra parte Arrigoni imbarazza la mediana ospite, peccato poi che quando si tratta di produrre occasioni da gol il povero De Vena costretto centravanti non abbia il fisico per imporre la sua presenza nelle aree di rigore avversarie, così il goal arriva quando l'assistenza dalla destra trova Fanucchi a centro area.

La Lucchese è irriconoscibile rispetto a quella della partita precedente, gli uomini che ne vestono la maglia ce la mettono tutta, ma non è solo impegno e grinta, c'è anche un gioco e, visto il potenziale a disposizione, si capisce quale patrimonio sia l'allenatore Lopez, uno dei pochi maestri di calcio visti a Lucca negli ultimi anni, di quei tipi che non parlano molto e che, evidentemente, in un ambiente di relazioni gestite da procuratori ed affaristi come quello del calcio, forse non deve avere gli 'agganci' giusti. Ce lo teniamo stretto e speriamo che nelle categorie superiori si continuino a scegliere condottieri che non hanno mai fatto gavetta. Quello dell'allenatore è uno dei ruoli più misteriosi del calcio moderno, non si capisce mai quanto conta visto che poi in campo ci vanno i calciatori, eppure è quasi certo che quando una squadra ottiene risultati inferiori alle aspettative la colpa è sua.

Nel calcio moderno si sa che ogni volta che si mette piede allo stadio si vedono due partite, perché gli intervalli cambiano tutte le alchimie, fisiche, motivazionali e psicologiche; così al rientro l'Alessandria decide che non può perdere e fin da subito si capisce che sarà un assedio. Dal canto suo la Libertas deve ben presto sostituire Mingazzini che non è più abituato a giocare una partita intera, mentre anche Fanucchi non è al meglio e deve essere avvicendato. Ora i rossoneri sono praticamente privi di ogni uomo d'eccellenza, così ad ergersi protagonisti sono i comprimari, le riserve. Ecco allora Marco Maini, difensore, al terzo anno nella Lucchese, che complice il portiere Albertoni prima sventa non si sa come un gol già fatto dei grigi, poi in quella che è pressoché l'unica uscita offensiva rossonera della ripresa segna il raddoppio. Ma non è ancora finita, c'è Magli, che picchia e combatte gli attacchi ospiti senza mai tirarsi indietro, quindi sale in cattedra Merlonghi, una vita all'attacco nei dilettanti e trasformato in terzino a Lucca, che stavolta gioca mezzala e che negli ultimi dieci minuti prende per mano i suoi guidando i contrattacchi e sventando stoicamente un gol fatto all'ultimo secondo. Sarebbe stato il pareggio, l'Alessandria-Italia lo avrebbe anche meritato, nel secondo tempo ha assediato la Lucchese, ha preso una splendida traversa, però ha accorciato le distanze solo rocambolescamente. Ci deve pur essere un motivo se una squadra del genere è in fondo alla classifica, mentre per le pantere vengono tre punti d'oro e fortunati, ma la fortuna, in quanto componente del calcio, non viene mai per caso, bisogna andarsela a cercare.

 

 

 

 

 



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